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Maradona è morto: l’elaborazione del lutto tra individuo e società

“Il passato è terribilmente reale e presente e

 afferra chiunque non sappia riscattarsi con

una risposta soddisfacente”.

C. G. Jung

Quante volte nella vita ci capita di incontrare persone che sembrano rimaste bloccate in un tempo passato, fatto di affetti e persone che ormai non ci sono più? E quante volte ci capita di avere a che fare nella vita di tutti i giorni con organismi sociali (istituzionali, associativi, aziendali, ecc.) che più che essere sintonizzati sul “qui e ora” della vita presente sembrano rimasti ancorati ai fasti di un tempo che fu?

Partendo dal concetto di lutto, il tema che tratterò nell’articolo cerca di indagare collegamenti e risonanze tra questi due mondi apparentemente molto diversi e lontani tra loro, quasi da sembrare scollegati. Eppure l’ipotesi che porterò avanti in questo lavoro mira proprio a sondare possibili riflessi che associano l’organismo individuale nel suo complesso modo di stare in piedi e le organizzazioni sociali in cui egli vive, gioca, procrea, si appassiona, investe, lavora, fallisce, soffre, si rialza.

Per muovermi in questo delicato tema farò riferimento a due episodi ravvicinati tra loro e che in modo diverso hanno stimolato in me alcune riflessioni che si sono lentamente sviluppate nel corso della mia professione. In questo modo tenterò di approfondire il processo del lutto nella sua forma patologica e nella sua corretta elaborazione provando a collegare il funzionamento psichico individuale con la sua manifestazione in scala macroscopica a livello sociale.

Elaborare un lutto: Il lutto patologico

“Pare proprio che Maradona non sia ancora morto”. Quasi incredulo alle mie stesse parole, tale affermazione prese forma prima in me e poi nel colloquio in corso con il mio paziente, mentre lo osservavo nel tentativo di negare per l’ennesima volta le lacrime che si accumulavano nei suoi occhi quando parlava del vuoto affettivo che lo bloccava ormai da anni.

A ben vedere però, qualche collegamento in realtà c’era eccome, sia per quanto riguardava il paziente (le cui origini erano partenopee), sia per quanto riguardava i miei processi interni da cui si era originata la mia affermazione. Poco dopo, infatti, nel cercare di capire da quale mio “assetto psichico” (Bromberg, 2007) scaturisse fuori quanto da me pronunciato, mi ricordai che qualche giorno prima avevo ascoltato alcune notizie sportive alla radio che mi avevano fatto prima sorridere e poi pensare.

Un giornalista riportava del buon campionato che il Napoli stava disputando e delle probabilità di vincere lo scudetto. Curiosamente però, la tifoseria intervistata sembrava piuttosto monotematica: grande squadra, ottimi giocatori, bravo l’allenatore, ecc. ecc. ma in fin dei conti la possibilità di vincere il terzo scudetto in un modo o nell’altro rievocava puntualmente il mito di Maradona. Ascoltando quei commenti, sembrava proprio che l’ex capitano fosse ancora lì, sotto le luci della ribalta nonostante fosse ormai da anni lontano sia da Napoli che dai campi di calcio. Prestandoci più attenzione, mi accorsi che anche gli altri mass-media andavano grosso modo nella stessa direzione. Ricordo che fu allora che pensai per la prima volta a qualcosa di simile alla frase suddetta (e forse anche a un abbozzo primitivo del tema qui sviluppato). Sta di fatto che né quell’anno né in quelli successivi la squadra partenopea guadagnò il titolo di campioni d’Italia.

Elaborazione del dolore e accettazione del lutto

Se tale associazione sembrava inizialmente fuori luogo, divenne via via più comprensibile quando attraverso questa immagine simbolica proseguimmo il lavoro terapeutico, considerando il lutto non elaborato del mio paziente dopo la perdita della moglie. Come suddetto, egli respingeva sistematicamente le sue emozioni ogni qual volta sfiorava tale argomento, come se portare il lutto rappresentava “una debolezza, una autocommiserazione, una cattiva abitudine anziché una necessità psicologica” (Gorer, in Costantini et al. 2001). Quest’uomo era così imprigionato nel suo passato che per andare avanti nel suo presente non poteva fare a meno di immaginare che la moglie fosse ancora lì accanto a lui. Pertanto, ogni mattina metteva in scena il rito del messaggio di “buongiorno” che si inviava dal cellulare che era stato della moglie. Tale sintomo mostrava chiaramente la precarietà del suo equilibrio che si reggeva su rituali come questo, attraverso cui il paziente cercava di mantenere il controllo sul suo mondo in frantumi e tentare così di far fronte al vuoto che aveva lasciato la sua perdita. Il copione di riferimento nella sua narrativa dominante manifestava, quindi, la rigidità del funzionamento psichico: la sua architettura interna era in una evidente condizione di stallo, poggiandosi da una parte sulla sua rievocazione di un passato ormai lontano e dall’altra sul deserto emotivo di un presente in cui era assente.

Dopo aver detto al paziente che mi sembrava vivesse qualcosa di simile a ciò che in scala macroscopica succedeva a livello sportivo alla sua città, ovvero che anche lui era ancorato al suo personale “mito di Maradona”, egli placidamente fece un sorriso e annuì. In effetti, in entrambi i casi vi era un oggetto perduto puntualmente rievocato e puntualmente irraggiungibile, che non lasciava posto a qualcosa di altrettanto coinvolgente sebbene alternativo. Da questa prospettiva potremmo dire che al Maradona inteso come ideale di riferimento, come simbolo psicologico, non era stato ancora concesso di uscire dal “campo di gioco”, ritirarsi dalle scene e lasciare il posto a qualcos’altro in cui credere e investire.

La gestione del lutto personale e sociale

Come detto, fu a quel punto che qualcosa scattò in me e cominciai a farmi delle domande in merito. Con il passare degli anni questa associazione ha favorito sempre di più il mio interesse per la psicologia e la psicoanalisi sociale, la psicologia dello sport e delle organizzazioni, attraverso le cui lenti ho potuto osservare come la natura dei processi psichici individuali non siano scollegati da quelli macrosociali (istituzionali, societari, ecc.) in cui il soggetto opera con il suo sistema mentale.

Metamorfosi

Il resto è storia: 33 anni dopo l’era Maradona, il Napoli ha vinto il suo terzo scudetto, così come 34 anni dopo “la mano de Dios”, l’Argentina ha vinto la sua terza coppa del mondo. Entrambi gli eventi calcistici hanno preso vita dopo la scomparsa del fuoriclasse morto sul finire del 2020 alle porte di Buenos Aires.

Quel giorno e per molti altri a venire, scene di pianto, disperazione e cordoglio imperversavano per le strade di entrambe le città a seguito della notizia della scomparsa non solo di una icona dello sport, ma di un vero e proprio “mito per vivere” (Campbell, 1996) per moltissime persone, costrette a fare i conti con l’inesorabile triplice fischio dell’Arbitro. Sotto le luci della ribalta non vi erano più le sue memorabili gesta bensì il suo feretro.

Ed è a questo punto che la mia ipotesi di lavoro prende pienamente forma. Attraverso gli strumenti psicologici summenzionati, mi sono chiesto se sia possibile considerare il rispettoso omaggio fatto dalla città di Napoli al suo beniamino (che per una notte intera tenne le luci accese dello stadio San Paolo prima di spegnerle e ribattezzarlo in “Maradona”), e quello espresso oltreoceano in Argentina (ove per tre giorni fu decretato il lutto nazionale), come non solo un affettuoso commiato celebrativo, ma qualcosa di ben più complesso e psicologicamente significativo.

La complessa psicologia del lutto

Preciso che non sto parlando né di “caso” né di “causalità” (quanto meno se la si intende come linearità). Ciò di cui tratto in questo articolo chiama sulla scena il concetto di “complessità” (Licata, 2019) che caratterizza il funzionamento dell’essere umano, sia nella sua organizzazione individuale che sul piano sociale. Un palcoscenico in cui vale l’effetto farfalla e la logica dei frattali, due fenomeni che ci insegnano come eventi microscopici e impercettibili, apparentemente irrilevanti, sono collegati ad eventi macroscopici distanti nel tempo e nello spazio.

L’ipotesi che presento in questo articolo è che sia se parliamo di un individuo che di una società (anche sportiva) un lutto non elaborato fa sì che si resti in una condizione di blocco definito lutto patologico (Freud, 1917). Diversamente, quando “il lutto come manifestazione pubblica e collettiva, a cui per molto tempo era stato privato di ogni diritto di cittadinanza all’interno di uno sfondo culturale fondato sul mito dell’individuo” (Costantini, et al. 2001) trova accoglienza a livello emotivo, allora esso può dare vita a qualcosa di nuovo.

Ipotizzo, quindi, che il pianto collettivo, i rituali funebri, ecc. a cui ho accennato poc’anzi potrebbero essere letti simbolicamente come un tentativo di integrare l’oggetto perduto: un processo psichico altamente adattivo in cui la realizzazione della perdita e il ritorno al valore della vita vanno di pari passo (De Martino, 1958). Infatti, è proprio la realizzazione della perdita a generare il dato di realtà necessario come stimolo per procedere verso una corretta elaborazione del lutto (Freud, op. cit.) e riorganizzare il proprio assetto dal rigido e monotematico “là e allora” al potenziale “qui e ora”.

Ovviamente non sto dicendo che è la morte fisica a decretare necessariamente l’esperienza del lutto e la necessità di una sua elaborazione, né tanto meno sto affermando che per superare correttamente un lutto debbano passare tre decadi, ecc. Sebbene ci siano delle fasi inevitabili, come vedremo a breve, non c’è una formula standard valida a prescindere dalla cultura e dal contesto di riferimento. Il processamento di un lutto può avere a che fare con le forme suddette come prendere tutt’altro aspetto. Non si sta, quindi, approcciando tale tema sul piano riduzionistico, ma si cerca di favorirne una visione più complessa e non lineare.

Metabolizzare il lutto: i lutti patologici

Lutti patologici se ne incontrano ogni giorno e in ogni dove e spesso hanno a che fare con esperienze in cui la perdita dell’oggetto non ha affatto a che fare con la morte di una persona cara, ma può trattarsi di perdite simboliche (traumi che deturpano il corpo, un fallimento sentimentale, il pensionamento che decreta la fine di un ingaggio lavorativo, ecc.). A tal riguardo, Freud (op. cit.) distingueva il lutto profondo dal lutto melanconico osservando che nel primo caso a rappresentarsi come svuotato e impoverito è il mondo esterno ma non il senso di sé, mentre nel secondo caso a dichiarare lo stato di emergenza è innanzitutto il mondo interno al soggetto che si autoingiuria e si autorimprovera, perdendola capacità di amare e sentendosi inibito e avvilito di fronte a qualsiasi attività.

In entrambi i casi però, la corretta elaborazione della perdita si determina sempre attraverso la complessa dialettica morte-rinascita e, inoltre, che il ritorno alla normalità esige che il rispetto della realtà prenda il sopravvento. Tuttavia questo compito non può avvenire immediatamente. Esso può essere portato avanti solo poco per volta e con grande dispendio di tempo e di energia d’investimento; nel frattempo l’esistenza dell’oggetto perduto viene psichicamente prolungata” (Freud, op. cit. p.104).

Le fasi di elaborazione del lutto

Passando in rassegna alcune storie dei miei pazienti che hanno completato, ognuno secondo i suoi tempi, il proprio processo di elaborazione del lutto, direi che il Maradona simbolico di cui sto parlando ha avuto diverse forme e rappresentazioni: per alcuni ha rappresentato l’affrontare la sofferenza di un fallimento sentimentale vissuto come irrinunciabile, per altri, è stato imparare ad andare avanti e  reinvestire nella vita nonostante la morte della persona amata (come nel caso clinico preso in esame), per altri ancora lo sforzo di guardare attraverso “altre lenti” (Kant, 1787) l’immagine di un familiare un tempo venerata, per altri ancora scoprire altri assetti e altri ruoli indipendenti dallo status lavorativo a cui si era dedicata tutta la vita. Per tutti ha significato l’elaborazione del lutto a completamento del proprio percorso terapeutico, in cui il tema della perdita e della separazione riguarda direttamente la diade analitica (Carotenuto, 2001).

Fasi lutto: la negazione

In ogni caso, a prescindere dalla forma che il processo di elaborazione ha assunto, si è trattato sempre di avere a che fare con una metamorfosi, una trasformazione in cui si sa bene come si era ma non ancora come si sarà. In tale dimensione si attiva un cambiamento sebbene quel che prende forma è sempre qualcosa che ha a che fare con il proprio sistema di funzionamento e non con qualcos’altro. Un processo che suscita inizialmente sensazioni di paura del cambiamento avvertito come minaccia e destabilizzazione e che porta alla negazione di quanto perduto con l’intento simbolico di “regredire” (Jung, 1958) all’assetto intrapsichico e interpersonale che c’era prima della perdita per preservare l’equilibrio del proprio sistema di funzionamento.

Fasi del lutto: la rabbia

A questa fase di rifiuto, segue poi quella della rabbia legata alla perdita, al fatto che le cose siano andate così e non colà. È la fase del “perché proprio a me” in cui predominano i vissuti aggressivi rispetto a tutti quei sentimenti ed emozioni che la negazione del lutto permetteva di non vedere e quindi di non sentire. Anche questo, come tutti gli stadi dell’elaborazione del lutto, è un passaggio obbligatorio e necessario, che sebbene sia vissuto come faticoso e doloroso dal soggetto, comunica al contempo che la mente dell’individuo sta riuscendo lentamente a permettersi qualcosa in più rispetto alla prima fase del lutto. Pertanto, anche se può sembrare in controtendenza visto il disvalore che spesso la nostra società attribuisce al fare esperienza della rabbia, l’esprimerla nello spazio terapeutico viene inteso sul piano clinico come un progresso del processo di elaborazione del lutto. In tal modo esso permette al soggetto di poter andare avanti ed entrare in contatto con una fase intermedia ovvero quella della negoziazione.

La negoziazione

Questa nuova fase prevede, come dice la parola stessa, una sorta di dialettica tra diversi assetti dell’individuo che gradualmente sta imparando in tale non facile transizione psichica ad andare avanti e a smarcarsi dalla dicotomia negazione/rabbia. Comincia così a confrontarsi con molte più sfaccettature che hanno a che fare con il desiderio dell’oggetto perduto e il parallelo desiderio di superare il suo lutto per andare avanti. Situazione clinica non facile poiché in questa fase emerge sul piano psichico una specie di “stato di sospensione” (Fulco, 2022) rispetto alle precedenti letture automatizzate di quel che si è perduto e di quello che era stato ipotecato del proprio futuro.

Sotto il profilo clinico di questa fase, quel che ho osservato spesso in seduta è stato a dir poco stupefacente: pazienti che hanno sempre avuto paura di elaborare i loro lutti cominciano a dirsi increduli di poter provare in questo tipo di faticoso lavoro qualcosa di “piacevole e liberatorio”; altri iniziano a descrivere le stesse vecchie dinamiche (sentimentali, lavorative, familiari, ecc.) in modi molto diversi dalla narrativa automatizzata con cui ne avevano parlato in passato (raccontando ad esempio sorprendenti aspetti e vissuti in relazione all’oggetto perduto mai emersi prima). La confusione che ne deriva spiazza sia il terapeuta sia il paziente, ma è necessaria, benefica, e va lasciata fare perché implica lo sviluppo di assetti alternativi dalle rigidità monodirezionali del passato e decreta una evoluzione nella terapia e, quindi, nel benessere del paziente (Bromberg op. cit.; Fulco, op. cit.).

Fasi del dolore

La penultima fase che entra in gioco in questo delicato processo di cambiamento è quello in cui lo stato depressivo del soggetto prende maggiormente forma. A questo punto l’individuo si permette di “stare” a contatto con il suo dolore perché capisce che per lasciarselo realmente alle spalle non c’è altra strada se non starci dentro. Si realizza non solo la perdita dell’oggetto perduto ma anche di tutto ciò che ha significato per il proprio equilibrio personale, interpersonale, sociale. Anche in questo caso, in maniera del tutto contro-intuitiva da quel che si potrebbe superficialmente pensare, l’accesso allo stato depressivo è da considerare in senso positivo, risolutivo, a causa dello stretto legame che c’è tra emozione e coscienza (Damasio, 2000). Attraverso l’espressione e l’elaborazione dell’emozione della tristezza, infatti, il soggetto può entrare maggiormente in contatto con i suoi vissuti e, finalmente, attraversare (anziché continuare a evitare) la perdita, cominciando così a maturare alternativi assetti di vita che preannunciano il superamento del lutto. Parafrasando Campione (2001) potremmo dire che “la maggior parte dei lutti si bloccano proprio perché l’espressione dei sentimenti negativi viene ostacolata” e invece è proprio attraverso la loro espressione che si può trattare la dolorosa esperienza del lutto in qualcosa di costruttivo e utile al nuovo equilibrio del soggetto.

Nel caso clinico sopra riportato ciò ha significato riconoscere l’impossibilità di far rivivere la persona morta attraverso la fallimentare strategia del cellulare, qui inteso come sintomo di evitamento del lutto. Ciò ha permesso al paziente non solo di sbloccare le sue emozioni ma anche di capire l’irriducibilità dell’altro a sé e, quindi, di entrare in contatto con una dimensione umana più ampia, originale e genuina. In tal modo è possibile riappropriarsi della responsabilità di esibire e determinare le proprie modalità e forme di comportamento di fronte alla perdita. Sentire le emozioni anziché rinnegarle (Maugeri, 2021), esprimerle per elaborarle, diventa punto di riferimento e bussola che riapre alla qualità della propria vita (Morelli, 2001).

Accettazione ed elaborazione del lutto

In tal modo, l’alternarsi di queste fasi permette gradualmente al soggetto di accettare la nuova realtà senza però negare o svalutare in modo difensivo il valore dell’oggetto perduto come si poteva fare quando il lutto era bloccato sul versante patologico. Integrando la propria perdita, si favorisce un maggior adattamento all’ambiente e di conseguenza il soggetto può disporre di un miglior assetto in relazione al nuovo contesto di riferimento. Così facendo il paziente impara a prendersi maggiormente cura delle proprie ferite e a reinvestire su di sé e su nuovi progetti di vita quelle energie precedentemente bloccate dal lutto non elaborato. La non facile transizione dalle rigidità del passato alla maggiore flessibilità del funzionamento psichico presente, permette di ridare valore alla propria esistenza, reinvestire nel presente, svincolarsi dalle ipoteche del passato e ripronunciarsi sul futuro (De Robertis, 2007).

Elaborazione del lutto 5 fasi + 1

A queste cinque fasi rilevate dagli studi di Kubler-Ross nel 1969 (fasi che l’autrice descrisse come le più comunemente osservate in chi vive un lutto ma non per questo da intendere come prescrittive) se ne potrebbe, a mio avviso, aggiungere una sesta introducendo il concetto di ansia adattiva. Una forma di ansia che solitamente i miei pazienti inquadrano come molto diversa da quella destabilizzante provata in altre situazioni o in passato. Potrebbe essere intesa come “positiva” poiché rappresenta la fiduciosa apertura del soggetto all’incognita del “qui e ora” e ad altre versioni di sé che prima spaventavano, ma che a completamento del processo di elaborazione del lutto non sono più viste come dimensioni della vita da evitare ma come opportunità da cogliere.

Inter urinam et faeces nascirim: elaborare il lutto

Alla luce di tutto ciò, che valore possiamo attribuire alla realizzazione-accettazione della perdita e all’integrazione simbolica dell’oggetto perduto? Ribaltando la nostra prospettiva di osservazione, la corretta elaborazione di un lutto può essere anche letta come il processo di gravidanza che precede un parto?

In un certo senso sì. Io credo, che se anche non possiamo ridurre un fenomeno così complesso con immagini tipo “risorgere dalle proprie ceneri come la fenice” perché si rischierebbe di banalizzare quanto, invece, si vive con estrema sofferenza e fatica, è pur vero però che un lutto ben elaborato ha sempre a che fare con una rinascita che muove le sue fondamenta proprio dalla sofferenza. Tale processo di rinascita ha quindi a che fare, come direbbe Freud (in Bromberg, op. cit.), né più e né meno con quello che si verifica già al momento del parto: “si nasce tra feci e urine”. Un processo che seppur doloroso e spiacevole ha il grande vantaggio di fortificare l’individuo rendendolo più resiliente alle sfide che la vita gli mette davanti (Morgan in Caretta e Petrini 2001; Yalom, 2015).

A mio avviso, solo entrando in questa prospettiva di significati possiamo fare delle inferenze su quanto suddetto e affermare che, sia in chiave micro-individuale che sul piano macro-sociale, l’assenza di una corretta elaborazione del lutto produce sintomi psicopatologici in grado di ostacolare nuovi e alternativi progetti di vita, amori, esperienze lavorative e perché no… “trofei”.

Come elaborare un lutto: conclusioni

A conclusione di questa disamina sul lutto visto su vari ordini di grandezza e manifestazioni, si potrebbe dire che è solo nella misura in cui viene data corretta sepoltura al “mito di Maradona”, qui inteso come oggetto simbolico perduto, che si possono scrivere nuove e alternative pagine di vita. Solo in tal modo si possono vivere nuove emozioni, coinvolgenti legami, ecc. e ciò vale, indiscriminatamente, in tutti gli ambiti in cui è inserito l’individuo poiché in essi prendono forma i suoi processi psichici di attaccamento e di adattamento all’ambiente necessari alla salvaguardia del suo sistema di funzionamento.

Quindi, in definitiva, il Napoli vincerà i prossimi scudetti, l’Argentina i prossimi mondiali e il paziente di cui si è parlato sopra raggiungerà la gloria eterna? Nient’affatto. L’ipotesi di lavoro che ho sviluppato in questo articolo mira anche a sottolineare che la corretta elaborazione del lutto non è uno strumento che protegge da futuri fallimenti affettivi/perdite materiali, né tanto meno rappresenta una pozione magica per l’immortalità. Quel che offre all’individuo e alla società che egli rappresenta nelle sue svariate forme organizzative è ben espresso dal celebre aforisma di Nietzsche che nel Crepuscolo degli idoli (1888) affermava che “ciò che non uccide rende più forte”. Ecco, cosa intendo per superamento di un lutto: la possibilità di riappropriarsi della vita affettiva che era bloccata dal dolore della perdita e rafforzarsi sul piano della resilienza e delle strategie di coping per andare avanti. Poter vivere oltre la perdita dell’oggetto amato un contatto più pieno e intenso con il proprio mondo intrapsichico e interpersonale, sebbene ci saranno nuove cadute, ferite e cicatrici e al contempo nuove possibilità per rialzarsi, poiché questo è il processo naturale della vita di ogni sistema umano, individuale o sociale che sia.

Giuseppe Fulco
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Bibliografia: elaborazione del lutto

  • Bromberg (2007), Clinica del trauma e della dissociazione, Raffaello Cortina Editore.
  • Campbell, J. (1996). Miti per vivere. Oscar Mondadori, Milano
  • Campione (2001), Il lutto tra disperazione e crescita, in Legami e Lutti n.43, Grin Editore, Roma.
  • Caretta & Petrini (2001), Riverberazione dei problemi etici nel lutto, in Legami e Lutti n.43, Grin Editore, Roma.
  • Carotenuto (2001), Sul problema del lutto in psicoterapia, in Legami e Lutti n.43, Grin Editore, Roma.
  • Costantini et. al. (2001), Il sostegno al lutto in una unità di cure palliative: un modello di intervento, in Legami e Lutti n.43, Grin Editore, Roma.
  • Damasio (2000), Emozione e coscienza, Adelphi Editore.
  • De Martino (1958), Morte e pianto rituale nel mondo antico: dal lamento pagano al pianto di Maria, Einaudi, Torino.
  • De Robertis (2009), Coscienza, livelli di espansione e tempo. Alcuni spunti per la cura psicoanalitica. Ricerca Psicoanalitica, 20(1), 123-144.
  • Freud (1917), Lutto e melanconia, Bollati Boringhieri, vol VIII.
  • Fulco (2022). Stati alterati di coscienza. Ricerca Psicoanalitica, 33(1). doi:10.4081/rp.2022.542
  • Jung (1958), Pratica della psicoterapia, Opere. Vol. 16, Boringhieri, Torino, 1993.
  • Jung (1965), Sogni, ricordi, riflessioni, BUR.
  • Kant (1787), Critica della ragion pura, trad. it. Laterza, Bari, 2005.
  • Kübler-Ross  (1969), La morte e il morire, Cittadella, 2005
  • Licata (2019), La terra di mezzo della complessità. Scienza e Conoscenza, Macro, Edizioni, Cesena.
  • Maugeri (2021), L’esilio delle emozioni rinnegate
  • Morelli (2001), Il lutto: istruzioni per l’uso, in Legami e Lutti n.43, Grin Editore, Roma.
  • Nietzsche (1888), Crepuscolo degli idoli, Carocci Editore, Roma, 2012.
  • Yalom (2015), Guarire d’amore, Raffaello Cortina Editore.

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